Trieste, 1 Maggio 2022
Croda di Ligonto – Monte Rosa 2786 m
Una decina di giorni dopo la salita del Monte Sernio che mi aveva garantito l’ottima qualità della neve, non persi l’occasione, e arrivammo a meta mattino ad Auronzo.
Solo che non era il solito sabato perché questa volta, e anche in previsione dell’annunciato arrivo di una perturbazione, avevo anticipato il tentativo prendendo due giorni di ferie.
La strada continuava ben pulita dal ghiaccio, così decidemmo di proseguire e andar posteggiare la mia Fiat 127 al deposito vini del Vecellio ai Prati Orsolina.
Trovammo invece ghiacciata la sua strada, e ricordando quella volta che ero slittato con la mia Fiat 500, rinunciammo ad avventurarci per non rischiare di rovinare anche questa volta la Gita.
E se la postegiasimo la de Armando Vecelio.
Gli scuri erano ancora chiusi, e allora lo chiamammo perché volevamo prima il suo permesso.
Una volta aperti i serramenti e vedendoci, sorpreso esclamò: – Orpo, siete voi; e che non stava bene.
Poi si scusò perché era ancora a letto con il piumino blu sulle spalle, che non stava bene, e che fa molto freddo in quei giorni nella Valle.
Noi gli chiedemmo solo il permesso di posteggiare l’auto perché vogliamo tentare la Croda di Ligonto.
Non se l’aspettava; e alzò lo sguardo osservandola perché è proprio la in alto e di fronte.
In in quel momento guardavo proprio la sua faccia enigmatica; e anche se lui cercava di dominarsi vi fu una lieve contrazione dei muscoli, e ci chiese solo quanti giorni staremo via, e che noi rispondemmo solo due. Ci salutò, e scusandosi s’affrettò a chiudere la finestra perché faceva freddo.
Niente; il nostro programma prevedeva il pernottamento nella Val di Dentro, e per questo avevamo con noi la tendina a mezzo cilindro dell’amico di Rinaldo Sturm e via.
Lungo il sentiero, e tra una ciacola e l’altra, io anche rivedevo tutte le possibilità per entrare nella Valle d’Ambata per evitare più avanti la sua strettoia.
Eravamo ancora distanti con il sole che illuminava tutta la Valle, e dove sopra i Pascoli dell’Ambata, riprendeva il bosco e a seguire il dosso coperto di mughi che risaltava nel candore invitante della coltre nevosa.
Non cantai ancora vittoria, e non lo dissi a Rinaldo perché io volevo prima raggiungere per sincerarmene, e poi insieme decidere di entrare nella mugheta.
Fu proprio così, e senza raggiungere l’attendamento Darmstaedter entrammo e seguimmo i corridoi innevati dove trovammo tracce di passaggio di camosci.
E sopra anche puliti dalla neve con tracce di passaggio di camosci su una corta parete.
Si, e i mughi erano anche fitti; e ricordando quanto visto negli altri tentativi, poggiammo a sinistra per entrare nel canale che la delimita dalla verticale parete del Torrione; e che lo trovammo pulito dalla neve, e per un buon tratto che ci consentì anche di prendere fiato.
Improvviso s’era alzato il vento, e sempre più forte che ben presto riempì lo spazio di neve.
Noi intanto eravamo entrati nel solco della Val di Dentro ben innevata, e dove procedevamo con fatica; e più avanti anche che sulla Croda c’era la tempesta di vento; e che il pulviscolo di neve ad intermittenza, nascondeva la sua Cima.
Niente; e valutammo che fosse più conveniente fermarci e trovare un posto dove mettere la tendina. Sulla nostra destra una parete fa da bordo alla Valle, e ci portammo la sotto anche per essere al riparo del vento.
La stendemmo sulla neve appiattita con gli scarponi tenendo stretti con le mani i legacci di un solo lato per prova, e la forza del vento la sollevò verso il cielo.
Noi eravamo già dentro mezzi appisolati nonostante i rumori della tendina scossa dai colpi di vento, quando notammo un improvviso silenzio. Aprimmo subito un tratto dell’entrata e guardammo fuori.
Sì, e vedemmo proprio di fronte la nostra Meta con i colori freddi del tramonto esaltati dalla nitidezza dell’aria non più contaminata dal pulviscolo di neve a ricordarci che siamo in inverno; buona notte.
Non eravamo ciarlieri quella sera anche perché l’attesa non invogliava al dialogo, e ci abbandonammo al sonno. Attesa che per me è stata lunga perché mi sono state sufficienti cinque/sei ore di riposo; ed inoltre, anche se io non volevo, ero sempre con il pensiero sulla salita. Faremo così, faremo colà, e sempre il timore per la traversata che causò la rinuncia a proseguire nel secondo tentativo; e saranno state tante di quelle volte “che non vedevo l’ora” di alzarmi per finirla.
Lunga è stata l’attesa, ma quando Rinaldo, che non ha problemi per dormire, iniziò a girarsi nel sacco, non persi l’occasione per parlare, e poco dopo decidemmo d’andare.
Gli scarponi che stavano con noi nei sacchi erano sgelati e così non perdemmo tempo a calzarli, e una volta fuori prendemmo solo il tempo per sistemare quello che restava nella tendina, fissare già i ramponi ai piedi e ancora la foto ricordo; e via nella neve inconsistente del solco ripido della Valle; un passo avanti e due indietro cercando invano a destra e a sinistra neve un poco più consistente; e forse anche accendemmo le lampadine tascabili. Niente, e ben presto eravamo bianchi di neve.
Il solco tende a poggiare e la neve prendere corpo; e quando uscimmo il sole dell’aurora illumina le montagne che racchiudono l’Alta Val di Dentro che così tutta innevata sembrava tanto più ampia.
Sul falsopiano la neve ancora gelata facilitava il nostro procedere, e noi andammo anche ben oltre il punto dove s’inizia la salita per raggiungere la piccola Sella della via comune.
Iniziammo la salita, e aprivo sempre io la pista perché Rinaldo sprofondava troppo nella neve, e faceva tanta fatica che deviò per conto suo nella speranza … che non c’era.
Non ne poteva più, e allora io mi portai verso la destra dove mi sembrava che la neve fosse migliore. Era vero perché quella parte è esposta al sole più tempo nella giornata, e pertanto con in freddo della notte si compatta; questo è stato il nostro convincimento.
La salimmo fin sotto la parete che stava per essere raggiunta dal sole; solo che il bordo era poco spesso e noi dovevamo rientrare a sinistra perdendo quota.
- E se … Si; tirammo fuori la corda per continuare in sicurezza per il pericolo del cedimento dell’orlo del pendio, e arrivammo sulla piccola Sella.
Eravamo stanchi, tanto che rinunciammo a slegarci, e continuammo in cordata consentendo a turno di prendere fiato.
In quel tratto toccava a Rinaldo; e mentre sfilavo la corda io anche osservavo il pendio d’attraversare, e che nel secondo tentativo non affrontammo. Non che quella mattina lo vedessimo sicuro, ma eravamo solo più determinati.
Io speravo ancora di trovare una possibile variante, e così guardai nuovamente anche quello che stava sopra. C’era l’invito della conosciuta corta parete arretrata, non in linea, che continua l’isolata sovrastante proprio il pendio del traverso.
Solo che quella mattina presentava le sue cenge innevate, e dove sulla più marcata, noi due siamo passati in discesa dalla Cima Darmstaedter; e non scartammo certo quella possibilità portandoci la sotto (racconto presente nel blog).
Cosi, e senza difficoltà raggiunsi Rinaldo proprio sulla cengia con tetto conosciuta, e deve ci concedemmo una sana pausa per godercela.
Proprio ci voleva questa variante perché oltre ad evitare il traverso sulla mezza costa, il mio “cruzio” per tanto tempo, evita anche la salita d’uno dei due canaloni della via normale.
Così traversammo la marcata traccia della cengia che gira lo spigolo, dove gli vedemmo sotto di noi colmi di neve; e noi felici della scelta che ci ha risparmiato il più lungo giro, e sicuramente tanta fatica.
Riprendemmo la salita tenendoci il più possibile vicino alla parete, anche tenendoci sugli appigli finche la neve teneva.
Poi dovemmo passare nel canalone singolo che gli continua.
Per sicurezza, e per non sprecare energie, facevamo mezze lunghezze di corda alternandoci; non così nell’ultimo tratto dove Rinaldo sprofondava fino ai fianchi.
Tutto altro sulle rocce gradinate per portarci sotto la parete finale, ed entrammo nel diedro pulito dalla neve e ghiaccio.
Rinaldo era salito qualche metro che sentimmo arrivare il frastuono che credemmo dovuto al passaggio di un aereo a reazione. Non lo vedemmo, ma arrivo invece una forte raffica di vento che si schiantò su quelle pareti come le volesse demolire. Solo pochi secondi e arrivò un’altra con la stessa forza e un’altra ancora.
Per nostra fortuna non fummo colpiti perché al riparo nel diedro.
Una pausa, e seguirono delle altre in diminuzione di forza tanto che Rinaldo finì la salita del diedro.
Una volta raggiuntolo, noi subito c’imbacuccammo per difenderci dal vento freddo, e raggiungemmo la Cima: 22 gennaio 1981.
Dopo la fraterna stretta di mani solo silenzio; e non un alito di vento.
Erano trascorse da vari minuti le ore quindici e non volevamo perdere tempo.
Così restammo legati e senza toglierci i sacchi tanto che non mettemmo niente nello stomaco.
Scendemmo sulle nostre orme; il diedro in sicurezza perché con i ramponi calzati; e veloci tutta la restante discesa del canalone principale, e anche quello interno che prendemmo alla biforcazione per evitare la parete della variante che avrebbe richiesto più tempo.
Eravamo presto fuori, e la Croda da Campo nostra alleata rifletteva ancora la luce del sole per aiutarci sulla mezza costa. Sempre legati, e fidandoci della neve compattata dal gelo, traversammo il pendio e al sicuro sotto la parete con l’ultima luce del crepuscolo.
Ancora una pausa per guardare lo spettacolo dei Monti in controluce ormai alla fine del crepuscolo.
- Tullio, andemo che xe tardi.
Così dalla piccola Sella usammo ancora la corda perché il primo tratto era molto ripido.
Solo che sulla superficie trovammo uno strato di frammenti di ghiaccio caduti dall’alto, e che ci seguivano nella discesa con un melodioso fruscio andando a riempire le profonde orme appena lasciate.
Ormai la corda non serviva più, e una volta liberi ognuno scelse la sua discesa, e al chiarore della neve giungemmo alla tendina.
Tardi per tardi anche ci ristorammo perché in tutto il giorno non abbiamo messo niente nello stomaco per non perdere tempo; e anche la tenda richiese cura per infilarla nel suo sacco.
Riprendemmo a scendere e presto vedemmo la macchia scura della mugheta.
- Orpo, e adeso? Solo al pensiero d’entrarvi provai sofferenza. Lavoro di meningi anche se stanchi.
- Niente, noi seguimo la nostra pista e continuemo a scender per el canal soto i mughi cercando de adoperar le lampadine el meno posibile.
Fu proprio così, e anche quella volta la fortuna volle aiutare gli audaci.
Finita la neve finì anche la pista; e allora noi seguimmo la linea del canalone coperto da detriti ben attaccati al suolo dal ghiaccio che ci permettevano di scendere sicuri.
S’è fatto più stretto, e ben presto anche rasente alla parete del Torrione, e subito dopo anche che, forse, che abbiamo trovato la possibilità di evitare la discesa per lo sconosciuto canalone.
Vedemmo, intuimmo che dove il canalone aumenta la pendenza, al contrario, sulla parete del Torrione c’è un gradino d’erosione che, sembra, va per conto suo.
Sicuramente accendemmo anche la lampadina per veder meglio, e non rifiutammo quell’occasione anche se coperto di ghiaccio. Noi eravamo sempre con i ramponi calzati; e via.
Il gradino perde quota ma è sempre più alto del canalone; man mano si fa più ampio e con tratti erbosi che frenavano il nostro procedere per la paura di perdere il percorso giusto, e così, e dopo qualche titubanza, anche perché s’allontana dal canalone, e arrivammo allo sbocco del conosciuto che dai pendii ghiaiosi sottostanti la Croda scende delimitando il Torrione: stentavamo a credere, e con tanta facilità.
Ci restava ancora da superare l’ultima barriera di mughi a guardia, e come la prima volta in salita, e toccò a me il compito di trovare il passaggio.
Allora per avere le mani libere infilai la mia piccozza nel sacco alla meno/peggio e affrontai l’ultima battaglia.
Uscimmo vittoriosi; e quando allungai il braccio per riprenderla, la mano … trovò il vuoto.
Impensabile a cercarla, e mi consolai presto: la Croda l’ha voluta tenere per ricordo.
La breve salita sulla larga cengia per incrociare le nostre orme sembrava interminabile tanto che credevamo di essere passati oltre; invece erano là per indicarci la nostra discesa.
Discesa che deve essere stata tranquilla perché il ricordo ritorna che siamo sotto la finestra illuminata della casetta d’Armando, e che lo chiamammo.
Il copione è stato lo stesso, solo che era in camicia pesante; ma stava bene.
- Ah, siete voi. Poi m’informò che aveva chiamato (telefonato) mia moglie chiedendo nostre notizie.
Certo, lei era sicura che saremmo passati a salutarlo, e che lui la ha assicurata che saremmo discesi domani.
Stava già per chiudere la finestra e farci i saluti quando si bloccò un attimo; noi due eravamo la sotto ben illuminati dalla sua luce, e noi avevamo ancora i ramponi calzati coperti di ghiaccio. Il suo cuore deve aver avuto un sussulto, e subito c’invitto a salire a bere qualcosa di caldo; la moglie Gabriella intanto aveva messo degli stracci sotto la tavola.
In tanti anni che ci conoscevamo, ero la prima volta ospite dentro casa sua.
Cosi anche potemmo subito telefonare a casa per tranquillizzare le nostre famiglie prima di goderci la sua ospitalità.
In quel momento stavano guardando la televisione e così iniziammo da quella e dei suoi programmi. M’informai poi non vedendola, se la figlia fosse riuscita ad ottenere la licenza di maestro di sci che lui ci teneva. Inevitabilmente parlammo delle sue montagne e quello che noi avevamo fatto; e finimmo con la caccia che lui ci teneva di più, e che mi fece fare la figura “de mona” perché non sapevo che trofeo sono le corna del camoscio che lui aveva abbattuto, e che noi avevamo trovato i resti nella discesa dal Colle di Ligonto; e chiudemmo con una bella e sana risata.
Avevamo così trascorso al caldo e in allegra compagnia un’oretta; e i ramponi s’erano liberati dal ghiaccio.
Grazie Armando e signora Gabriella, alla prossima volta.
Lui aspettò ancora alla finestra che c’illuminava che fossimo pronti; poi chiuse anche gli scuri.
Arrivammo a Trieste intorno alle ore due.